Libertà di stabilimento (Rivista Tributi del Ministero delle Finanze – 1999)

 

MASSIMA DELLA SENTENZA

 

 Gli articoli 52 e 58 del Trattato ostano a che uno Stato membro rifiuti la registrazione di una succursale si una società costituita in conformità alla legislazione di un altro Stato membro nel quale essa ha la sede senza svolgervi attività commerciali, quando la succursale ha lo scopo di consentire alla società di cui si tratta di svolgere l’intera sua attività nello stato membro nel quale la stessa succursale verrà istituita, evitando di costituirvi una società ed eludendo in tal modo l’applicazione di norme, relative alla costituzione delle società, più severe in materia di liberazione di un capitale sociale minimo. Tuttavia, questa interpretazione non esclude che le autorità dello Stato membro interessato possano adottare tutte le misure idonee a prevenire o sanzionare le frodi, sia nei confronti della stessa società, eventualmente in cooperazione con lo Stato membro nel quale essa è costituita, sia nei confronti dei soci rispetto ai quali sia dimostrato che essi intendono in realtà, mediante la costituzione di una società, eludere le loro obbligazioni nei confronti dei creditori privati o pubblici stabiliti nel territorio dello Stato membro interessato.

L’applicazione del principio della libertà di stabilimento.

Sommario:   1. Premessa; 2. Definizione del principio; 3. Distinzione dal principio della libertà di prestazione di servizi; 4. Condizioni per l’esercizio di attività; 5. La libertà di stabilimento, il principio di parità di trattamento e le norme fiscali nazionali.

  1. Premessa.

La sentenza in esame offre l’occasione per fare il punto sull’interpretazione della Corte di Giustizia con riferimento ad alcuni aspetti del principio della libertà di stabilimento posto con il Trattato di Roma. Le norme comunitarie rilevanti sono contenute negli articoli 52, 56 e 58 del medesimo Tratatto.

Nel caso di specie il Giudice comunitario si trova a dover verificare un limite di applicazione del principio, con particolare riguardo agli effetti elusivi che potrebbero prodursi in occasione della creazione in una branch in uno Stato membro da parte di una società residente in un altro Stato membro.

In particolare, una private limited company inglese, in sede di registrazione di una propria branch in Danimarca, si vede opporre il rifiuto da parte dell’amministrazione danese.

La motivazione di detto rifiuto consiste essenzialmente nel fatto che se, da un lato, la società inglese non svolge alcuna attività economica in Inghilterra, dall’altro, in concreto si troverebbe ad esercitare la propria attività commerciale esclusivamente in Danimarca, per il tramite di una succursale, senza rispettare i limiti di capitalizzazione minima del diritto danese.

In considerazione di ciò la richiesta di registrazione viene considerata, così come l’intero assetto imprenditoriale, unicamente preordinata ad eludere detto principio di capitalizzazione minima.

A fronte del ricorso per l’impresa inglese, il Giudice comunitario ribadisce la validità del principio del libero stabilimento e chiarisce, sulla scorta di consolidata giurisprudenza comunitaria, in quali ipotesi gli Stati membri possano legittimamente limitare il principio del libero stabilimento.

In particolare, detti limiti sono considerati legittimi a determinate condizioni: devono essere applicati in modo non discriminatorio, devono essere giustificati da motivi imperativi di interesse pubblico, devono essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non devono andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di quest’ultimo[1].

  1. Definizione del principio

Il principio della libertà di stabilimento è disciplinato nell’ambito degli articoli da 52 a 59 del Trattato.

In giurisprudenza della Corte di Giustizia si è chiarito che l’art. 52 del trattato costituisce una disposizione direttamente efficace (sentenza 21 giugno 1974).

Applicabile indistintamente alle persone fisiche ed alle persone giuridiche, il principio mira a garantire il trattamento nazionale al soggetto residente in uno Stato membro che si stabilisca, sia pure in via secondaria, in un altro Stato membro per svolgervi un’attività non subordinata (Causa 270/83, sent. del 28-01-1986, Commissione delle Comunità europee c. Repubblica francese).

 

 

  1. Distinzione dal principio della libertà di prestazione di servizi.

Accanto al principio della libertà di stabilimento si colloca il principio della libertà di prestazione di servizi, regolamentato nell’ambito del Trattato negli articoli da 60 a 66.

Il Giudice comunitario è intervenuto a chiarire le ipotesi in cui si rende necessario applicare il primo piuttosto che il secondo gruppo di norme.

Sul punto si rammenta, il caso di un cittadino di uno Stato membro che esercita stabilmente un’attività professionale in un altro Stato membro, offrendo i propri servizi ai cittadini di questo altro Stato da un domicilio espressamente eletto.

Ebbene, il Giudice comunitario, dopo aver valutato le caratteristiche peculiari del caso, ha stabilito che la fattispecie esaminata è soggetta alle disposizioni relative al diritto di stabilimento e non a quelle del capo relativo alla circolazione dei servizi.

In quest’ipotesi il Giudice si è trovato a dover verificare la sussistenza del profilo della temporaneità (o viceversa della stabilità) della prestazione, escludendo che la presenza di un domicilio nell’altro Stato sia da sola determinante per identificare come applicabili le norme in materia di libertà di stabilimento.

Le disposizioni relative alla libera prestazione dei servizi non escludono, infatti, la situazione di colui che si sposta da uno Stato membro a un altro. Tale situazione rileva, tuttavia, solo qualora il cittadino si stabilisca in un altro Stato non per stabilirvisi ma per esercitarvi la propria attività in via temporanea.

Il carattere temporaneo della prestazione di servizi va inteso, come chiarito dal Giudice, tenendo conto di quattro parametri: (i) la durata, (ii) la frequenza, (iii) la periodicità e (iv) la continuità della prestazione stessa (Causa 55/94, sent. del 30-11-1995, Reinhard Gebhard c. Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Milano).

Laddove al profilo della temporaneità si sostituisca quello della stabilità, le disposizioni applicabili divengono quelle relative alla libertà di stabilimento.

  1. Condizioni per l’esercizio di attività

Si parte dal principio base secondo cui tutte le attività economiche possono essere esercitate nell’ambito degli Stati membri.

Tuttavia, è noto che gli Stati, a volte, pongono delle condizioni.

Per valutare se ed in quale misura esse possano essere considerate compatibili con il diritto comunitario è necessario effettuare una verifica puntuale.

In merito, è stato molto chiaro il Giudice comunitario in occasione di una sentenza, peraltro richiamata nel cuore della motivazione della sentenza in esame con cui si è considerata ammissibile e non elusiva la branch in Danimarca della società inglese.

La sentenza richiamata parte dal presupposto che se l’accesso a un’attività non è sottoposto ad alcun vincolo nello Stato ospitante, il cittadino di qualsiasi altro Stato membro ha il diritto di stabilirsi nel territorio del primo Stato e di esercitarvi tale attività. E sin qui non sorgono questioni interpretative.

Tuttavia, se e nella misura in cui l’accesso ad un’attività e il suo esercizio sono subordinati a determinate condizioni (ad esempio possedere determinati diplomi, iscriversi a un organismo professionale, assoggettarsi a determinate regole professionali ovvero conformarsi a una normativa sull’uso dei titoli professionali), il cittadino di un altro Stato membro che intenda esercitare tale attività deve, di regola, soddisfarle.

Il Giudice afferma “di regola” perché non sempre dette condizioni si rivelano compatibili con il diritto comunitario e dunque non sempre dette condizioni devono essere considerate vincolanti.

Può dirsi che dette condizioni sono compatibili con il principio del libero stabilimento, e dunque legittime e vincolanti, nel caso in cui congiuntamente rispondano ai quattro criteri anticipati in premessa: applicazione non discriminatoria, giustificazione per motivi imperiosi di interesse pubblico, idoneità a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e limitazione a quanto necessario per il raggiungimento di questo (Causa 55/94, sent. del 30-11-1995, Reinhard Gebhard c. Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Milano).

  1. La libertà di stabilimento, il principio della parità di trattamento e le norme fiscali nazionali.

Il principio della libertà di stabilimento ed i principio di non discriminazione sono stati spesse volte utilizzati per verificare la compatibilità con il diritto comunitario di provvedimenti nazionali di natura tributaria.

Se, da un lato, la libertà di stabilimento comporta il divieto di discriminazione in funzione della nazionalità del contribuente (principio della parità di trattamento), dall’altro, va detto che non tutte le differenziazioni poste dalla normativa interna possono essere considerate discriminatorie e, quindi, incompatibili con il diritto comunitario.

E per quel che riguarda più da vicino le norme tributarie è stato chiaramente affermato dalla Corte di Giustizia che se, per un verso, è sostenibile che deve essere considerata vietata ogni discriminazione basata sulla cittadinanza, in quanto restrizione della libertà di stabilimento, tuttavia, per l’altro, non si può escludere aprioristicamente la legittimità di determinate differenziazioni, specialmente in un campo come quello del diritto tributario (Causa 270/83, sent. del 28-01-1986, Commissione delle Comunità europee c. Repubblica francese).

Questo principio è stato applicato in alcuni casi concreti che sono stati risolti dal Giudice comunitario.

  1. Non è compatibile con l’articolo 52 del Trattato la normativa di uno Stato membro che subordina il diritto ad uno sgravio fiscale alla condizione che l’attività di una holding consista nel detenere esclusivamente o principalmente le azioni di consociate stabilite nello Stato membro interessato (Causa 364/96, sent. del 16-07-1998, Imperial Chemical Industries plc c. Kenneth Hall Colmer, Her Majesty’s Inspector of Taxes).
  2. E’ considerata in contrasto con gli articoli 52 e 58 del trattato una norma che prevede l’esenzione dall’imposta sui negozi immobiliari in operazioni di ristrutturazione societaria per i soli casi in cui alienante dell’immobile sia una società costituita secondo il diritto nazionale.

    Negando lo stesso vantaggio ai casi in cui alienante sia una società costituita secondo il diritto di un altro Stato membro (diniego che si verificherebbe anche qualora l’alienante agisse per il tramite di una stabile organizzazione) ci si troverebbe di fronte ad una ingiustificata discriminazione: il trattamento risulterebbe differenziato nei casi in cui l’alienante agisse in Italia con una branch, piuttosto che attraverso una subsidiary.

    Per il Giudice comunitario tale disparità di trattamento, in definitiva, costituisce una discriminazione in base alla nazionalità vietata dall’art. 52 del trattato: una società che si avvalga del diritto, conferitole dall’art. 58 del trattato, di esercitare la sua attività in un altro Stato attraverso una succursale o un’agenzia subirebbe uno svantaggio rispetto a società costituite ai sensi del diritto del detto Stato membro. (Causa 1/93, sent. del 12-04-1994, Halliburton Services c. Staatssecretaris van Financien)

  1. L’art. 52 del Trattato CE non impedisce che uno Stato membro subordini il riporto di perdite richiesto da una succursale di società comunitaria alla condizione che le perdite abbiano un rapporto economico con redditi ottenuti dal contribuente nel medesimo Stato, purché ai contribuenti residenti non sia riservato un trattamento più favorevole.

    Viceversa, deve essere considerata discriminante la condizione che, durante l’esercizio in cui le perdite sono state subite, il contribuente debba tenere e conservare nel detto Stato, relativamente alle attività da esso ivi esercitate, una contabilità conforme alle norme nazionali.

    Ad ogni buon conto, lo Stato membro può esigere che il contribuente dimostri in modo chiaro e preciso che l’importo delle perdite, calcolato secondo le norme nazionali, corrisponde all’importo delle perdite da esso effettivamente subite (Causa 250/95, sent. del 15-05-1997, Futura Participations SA, Singer c. Administration des contributions).

In definitiva, l’analisi della sussistenza dei quattro criteri indicati in premessa costituisce l’iter logico seguito dal Giudice comunitario anche per valutare la compatibilità con il diritto comunitario di un trattamento tributario o contabile “differenziato”.

Carlo Geronimo Cardia

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