Omogeneità di trattamento fiscale di operazioni relative a beni nazionali (Rivista Tributi del Ministero delle Finanze – 1998)

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE; sentenza 17 giugno 1998; causa C-68/96; Pres. Ragnemalm, Avv. Gen. Lenz; Grundig Italia S.p.A. c. Ministero delle Finanze; domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Trento.

 

MASSIME DELLA SENTENZA

 

Imposta nazionale sui prodotti audiovisivi e fotoottici – Imposizione interna – Incompatibilità eventuale col diritto comunitario”

 

L’art. 95 del Trattato CE deve essere interpretato nel senso che osta a che uno Stato membro istituisca e riscuota un’imposta di consumo qualora la base imponibile e le modalità di riscossione dell’imposta siano diverse per i prodotti nazionali e per i prodotti importati da altri Stati membri

  1. Premessa.

Il Giudice comunitario torna a pronunziarsi ancora una volta sulla interpretazione dell’art. 95 del Trattato CE[1], evidenziando e precisando i parametri in relazione ai quali è necessario verificare la omogenetà di trattamento fiscale di operazioni relative a beni nazionali, da un lato, e beni comunitari importati, dall’altro.

La sentenza, peraltro, offre lo spunto per tornare a discutere della ormai abrogata imposta di consumo sui prodotti audiovisivi e cinefotoottici[2] (da or brevemente la “Imposta”) che ha interessato il diritto tributario italiano sino al 31 dicembre 1992[3].

  1. La questione pregiudiziale.

La questione pregiudiziale propostra dal Tribunale di Trento con Ordinanza 15 febbraio 1996 attiene, dunque, alla corretta interpretazione dell’art. 95 del Trattato.

Il Giudice italiano, infatti, ritenendo l’esito di una controversia[4] subordinato alla corretta intepretazione della norma comunitaria, si è rivolto alla Corte chiedendo

“se l’art. 95 del Trattato CE debba essere interpretato nel senso che vieta ad uno stato membro di istituire o di riscuotere un’imposta erariale di consumo quale quella prevista dall’art. 4 del D.L. 30 dicembre 1982, n. 953, convertito dalla L. 28 febbraio 1983, n. 53, ed ulteriormente disciplinata dal Decreto del Ministro delle Finanze 23 marzo 1983, laddove viene determinato un differente valore imponibile per i prodotti nazionai e per quelli importati da altri Stati membri e sono contemplate differenti modalità di riscossione dell’imposta per i medesimi prodotti”.

Il punto portato all’attenzione del Giudice, in sostanza, consiste nell’individuazione degli elementi impositivi che rendono un regime di tassazione omogeneo e, dunque, legittimo e non discriminatorio in ordine al tipo di operazione oggetto di imposizione.

In particolare, tra gli elementi impositivi rilevanti ai fini della valutazione dell’omogeneità, si chiede il Tribunale di Torino, se sia possibile rinvenire anche la base imponibile o le modalità di riscossione.

Il Giudice comunitario, giunge ad una soluzione affermativa non senza passare per una attenta disamina dei profili comunitari rilevanti.

  1. La pronunzia della Corte di Giustizia
  1. La giurisprudenza in Italia.

(cassazione che ha disposto la disapplicazione del reglamento perchè al di là della delega).

 

In proposito il Giudice comunitario risponde negativamente e nel merito chiarisce che il metodo naturale per la ricerca della localizzazione di una prestazione di servizi consiste nella individuazione del luogo in cui il prestatore ha stabilito la sede della propria attività; per poter derogare a tele principio, optando per l’individuazione di un “centro di attività diverso” da questo, è necessario che sia riscontrabile una “consistenza minima, data la presenza permanente di mezzi umani e tecnici necessari per determinare prestazioni di servizi”[5]. Di qui i noti parametri della permanenza, dell’impiego di risorse umane, delle risorse tecniche, per un esercizio autonomo delle prestazioni di servizio.

Nel caso di specie, le attività caratterizzanti la locazione finanziaria sono poste in essere non al di fuori della sfera giuridico economica organizzativa della Società di Leasing: l’attività di negoziazione, di stesura, di sottoscrizione e di gestione dei contratti avviene direttamente presso la Società, ovvero per conto di essa attraverso soggetti indipendenti.

A parere del Giudice comunitario, dunque, la Società di Leasing non disponendo né di personale dipendente né di una struttura in Belgio, non può essere considerata prestatrice di servizi per il tramite di una stabile organizzazione.

Ed infatti la descrizione delle modalità caratterizzanti l’operazione consente di evidenziare che i Clienti si rivolgono al Concessionario per l’acquisto in leasing di autovetture e, solo su indicazione di quest’ultimo o di terzi indipendenti, il contratto di leasing viene sottoscritto direttamente in Olanda presso la sede della Società di Leasing. Particolare non indifferente è che tra il Concessionario e la Società di Leasing non vi è alcun tipo di rapporto di dipendenza ovvero di collegamento, né diretto né indiretto.

  1. Il caso italiano.

Come si è avuto modo di segnalare, la Corte per rispondere al quesito si è trovata nuovamente a fornire elementi per la individuazione delle stabili organizzazioni, confermando orientamenti precedenti, ma non potendo ricorrere ad una definizione normativa vincolante.

Com’è noto, infatti, la direttiva non fornisce elementi precisi. Stesso discorso vale per il D.P.R. 633/72.

Per quel che concerne più da vicino l’Italia, l’intensa attività di interpretazione della dottrina è stata affiancata dalla recente decisione della Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. I, Sent. 1° luglio – 12 settembre 1997, n. 238.

 

I giudici i Milano hanno affermato il concetto che vede la stabile organizzazione come una entità avente le caratteristiche di una “unità aziendale” di un soggetto non residente, localizzata nel territorio dello Stato. Dunque, una unità aziendale. Concetto, questo, non dissimile da quello proposto in sede comunitaria (struttura idonea a garantire esercizio autonomo dell’attività).

In particolare, nell’ambito della sentenza che ha deciso in merito alla nota controversia tra l’Amministrazione finanziaria e la Philip Morris Inc., il Giudice tributario ha affermato che “per sua natura una stabile organizzazione così come individuata dal legislatore italiano (?) in materia fiscale e così come individuata nel regime delle convenzioni contro la doppia imposizione ha le caratteristiche di una unità aziendale. Come tale ne vanno individuati i beni che compongono l’azienda e i rapporti contrattuali (di lavoro di acquisto di beni sevizi) che ne costituiscono la struttura dei costi. Solo in tale modo è possibile concludere che esiste una stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residente. In assenza di ciò, l’affermazione risulta del tutto immotivata e non provata; lo stesso accertamento dei soli ricavi risulta comunque un accertamento errato, non essendo possibile l’esistenza di una stabile organizzazione (unità aziendale) capace di generare solo ricavi, senza sopportare costi”[6].

Ad onor del vero, come segnalato, è bene precisare che il concetto di stabile organizzazione non può essere considerato desumibile direttamente dall’ordinamento italiano. E’ tuttavia un dato di fatto che la fattispecie è a più riprese richiamata nell’ambito del regime impositivo diretto e indiretto, applicato, se del caso, in ossequio alle convenzioni contro la doppia imposizione[7], ispirate al noto modello OCSE.

Il modello OCSE (cfr. art. 5, versione del 1977) prevede la nota serie di parametri, di indicatori della “sede di affari in cui l’impresa esercita in tutto ovvero in parte la sua attività”. Di qui, i ben noti concetti di sede di direzione, succursale, ufficio, officina, laboratorio e le ipotesi in cui non si configura la stabile organizzazione (fini di deposito, di esposizione, di trasformazione, di consegna, di acquisto esclusivo di merci, di raccolta di informazioni, di ricerche, nonché, infine, il carattere preparatorio o ausiliario). Relativamente al requisito della fissità, l’organizzazione è stabile nella misura in cui l’”impianto” nel territorio dello Stato possa essere evidenziato per un periodo di tempo determinato, per esempio nell’arco di un anno.

Il Giudice milanese, peraltro, va oltre, in quanto chiarisce che di per sé la presenza di una società di capitali in Italia, controllata dal soggetto non residente, non costituisce presupposto dell’esistenza di una stabile organizzazione. A tale scopo è necessario che l’Amministrazione fornisca ogni elemento per la individuazione della struttura dei costi “mascherati” dallo schermo societario, in realtà facenti capo direttamente al soggetto non residente[8].

In definitiva, per il Giudice italiano non è provata l’esistenza nel territorio dello Stato di una stabile organizzazione di un soggetto non residente se l’Amministrazione Finanziaria non individua, attraverso beni e strutture di costi, gli elementi costitutivi dell’unità aziendale in cui si concretizza la stabile organizzazione.

La recente pronunzia del giudice tributario italiano, per ciò che concerne il concetto di unità aziendale, sembra sostanzialmente confermare i precedenti orientamenti giurisprudenziali ed interpretativi.

Con sentenza n. 9580 del 19 settembre 1990, infatti, la Corte di Cassazione aveva chiarito che tra gli elementi caratterizzanti una stabile organizzazione non poteva mancare, oltre al collegamento non occasionale con il territorio dello Stato e con persone qui operanti, oltre all’effettivo impiego di beni e attività lavorative, il coordinamento degli stessi (beni ed attività operative) per la produzione e l’effettiva autonomia funzionale. Caratteristiche, queste, che portano alla mente la nota definizione di azienda di cui all’art. 2555 c.c.[9].

Peraltro, lo stesso Ministero Finanze, con R.M. n. 460/196 del 13 dicembre 1989, aveva avuto modo di segnalare che per riconoscere una stabile organizzazione si dovesse fare accertamento dell’esistenza di una effettiva entità economica operativa, formalizzata in un’autonoma e funzionale struttura nazionale rispetto al soggetto non residente riscontrabile sia su base meramente contabile, sia sul piano più concretamente gestionale.

Precedentemente, con R.M. 29 gennaio 1979, n. 12/510, il Ministero aveva puntualizzato il concetto di autonomia (peraltro anche tributaria oltreché) economica e gestionale, “rispondente peraltro ad una logica di funzionamento, distinta da quella della casa madre che l’ha generato”.

Con sentenza del 27 novembre 1987, n. 8820, il Giudice di legittimità aveva poi posto l’accento sullo svolgimento abituale dell’attività nel territorio dello Stato, sull’utilizzo di una struttura organizzativa (di beni e di lavoro), sul concetto di permanenza a prescindere dall’elemento dimensionale, indicando come presupposto generale quello della costituzione di un centro di imputazione di rapporti e situazioni giuridiche riferibili al soggetto non residente.

In altre occasioni[10] la stabile organizzazione è stata vista come una autonoma organizzazione imprenditoriale, autonoma e distinta dalla casa madre, e dal punto di vista gestionale, e dal punto di vista contabile.

Alla luce di quanto sin ora esposto sembra possibile affermare che l’orientamento giurisprudenziale italiano sia nella sostanza compatibile con il punto di vista recente del Giudice comunitario.

 

Carlo Geronimo Cardia

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